martedì 18 dicembre 2007

Sono andato a Frontale in un giorno di pioggia, una leggera bruma sul fondo della valle ad ovattare i colori e a creare un’atmosfera leggera e morbida.
Dopo pochi km, risalendo la val di Rèzzalo, che si presenta come una valle interessante e invita ad una escursione che si addentra verso le cime del m.te Gavia e del m.te Sobretta, Frontale appare alla vista. Il paese si trova appoggiato su un balcone naturale sovrastante la Valtellina, che in quel punto comincia ad alzarsi per raggiungere Bormio.
Tutto qui dà un senso di aereo, di aperto allo spazio e al tempo.
Anche il piccolo cimitero sembra rivolgersi allo spazio, come se preparasse l’ultima rincorsa per farci volare nell’infinito.
Aggirandomi fra strade lucide di pioggia, deserte e silenziose, l’ombra del minatore di Frontale mi ha accolto e quella è un’ombra che non ha bisogno del sole per apparire nel pensiero.
Con lui ho percorso strade di un paese operoso che ha attraversato il suo tempo con una sua sobria dignità, la dignità di chi ha conosciuto la canzone antica della fatica e l’ha saputa sopportare con una fede semplice dai sapori antichi.
Ho letto su un cartello che gli abitanti di questo paese, prima di essere minatori e operai edili, ai tempi della Repubblica di Venezia, in significativa quantità erano emigrati per svolgere il duro lavoro degli scaricatori di porto in quel di Venezia. Qualche volta, per non abbandonare la montagna è necessario andare altrove per trovare le risorse per poi tornare e farla rivivere. I Frontalesi evidentemente non hanno mai temuto la fatica e i disagi, la montagna ha insegnato loro ad affrontarli e quella montagna se la sono portata in tasca nel loro viaggiare per lavoro.
Ho scelto la parte più antica del paese seguendo i passi silenziosi del Minatore di Frontale, ed ho trovato i segni dell’operosità antica
Sembrava di sentirle le donne del paese intente a lavare i panni mentre si raccontavano storie e ricordi nostalgici, mentre cantavano quelle canzoni che avevano come musica lo sciacquio dei panni sbattuti nell’acqua.
E l’immaginaria ombra del vecchio Minatore, con le proprie parole fatte di silenzio, dialogava con il silenzio di quelle stradine lavate dalla pioggia e spazzate dal vento che scendeva dal Gavia.
Ed io, con lui vicino, camminavo piano. Avrei voluto trovare la sua casa per vederlo entrare con un sorriso…
ed io sarei rimasto lì a guardare la sua felicità, l’avrei visto chiudere i vetri che avrebbero riflesso la mia immagine, ferma ad aspettare.
Aspettare... tutto lì sembra aspettare qualcosa che deve arrivare, qualcosa che deve partire.
C’è una vecchia scopa che aspetta davanti ad un uscio una nonna stria che si ricordi di lei
C’è chi aspetta il sole... ed io mi chiedo se il sole non appaia per paura di disturbare gli occhi del vecchio Minatore, occhi abituati al buio.
I gatti si aggirano per quelle stradine, anime libere in cerca della loro piccola felicità e di una carezza, pronti a ripagarti con uno dei loro sorrisi felici appena la ricevono.
E c'è chi aspetta un giorno nuovo per farlo diventare un nuovo giorno.
Ed arriverà un giorno nuovo: sarà di sole, perché quel minatore se l’è meritato e dal suo gomitolo luminoso scenderanno fili di luce ad annodare ricordi di morbida pace, che attraverso il vapore rimasto sull’obbiettivo della mia macchina fotografica, si sono composti in un acquerello che mi si è dipinto nella memoria.

Renato

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